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On works, interviews


INTRODUZIONE ALLA CREATIVITA’ NELL’ARCHITETTURA DI GUIDO GALET


Il mio primo incontro con le  opere di design ed architettura di Guido Galet sono state più che mai casuali.
Fu l’amico triestino Fabio Smotlak, docente di design all’Accademia di Belle Arti di Lubiana a mettermi in contatto con lui, quando nel 1994, come curatore dell’affermata Biennale del Disegno di Rijeka (Fiume) stavo decidendo sui designers da invitare. Infatti la 13a Biennale era dedicata esclusivamente al disegno di prodotti di design ed era, per quanto a noi noto, la prima ad esporrre criticamente una selezione internazionale di bozzetti di tali prodotti.
Era particolarmente comprensibile che avessi uno speciale riguardo per i designers italiani, determinanti nello sviluppo del design industriale contemporaneo. Ebbi fin dal ‘64 sufficienti motivazioni, riconoscendo l’importanza del design italiano nell’area mitteleuropea, quando questi venivano invitati alle più significative manifestazioni europee (ad esempio BIO di Lubiana). Fra i maggiori ricordiamo Achille Castiglioni, Angelo Mangiarotti, Enzo Mari ed Ettore Sottsass, che hanno con forza contribuito al successo del design italiano. Alla richiesta di indicarmi giovani designers  del vicino Friuli, regione estremamente interessante in questo campo, mi venne indicato da Smotlak, qualificato teorico e pedagogo del design, Guido Galet valido architetto ed altrettanto buon designer.
Il materiale ricevuto da Galet ed esposto alla Biennale, ha riconfermato le mie convinzioni sul design italiano anche tra i giovani.

Devo dire di essermi sempre profondamente interessato, come critico e storico d’arte, al ricco bagaglio culturale del Friuli e del Veneto, in modo particolare, dell’arte veneziana, in quanto mi occupavo di ricerche sull’architettura e sul design sloveno. Infatti ero in continuo dialogo con le tre culture: la romanica, la germanica e la slava, avendo queste concorso alla formazione dei caratteri architettonici ed artistici delle nostre regioni.
La visita agli edifici di Galet a Sacile e nei dintorni, assieme ad altre opere di architetti europei, a me non ancora note, fu motivo per un’esperienza eccezionale. Fu in qualche modo l’incontro con l’attuale viva architettura (postmoderna) e con la contestuale matrice urbanistica, intessuta di elementi significanti e pluralistici.

Già all’incontro alla casa-studio (Residenza Galet-Tonon, 1982), inserita nel verde ai limiti della città, in uno stabile sviluppato longitudinalmente, dove si alternano armonicamente, dietro ad una facciata colonnata, unità abitativee di lavoro, intravidi un preludio di architettura militante. L’autore in questa sua opera del periodo iniziale, si ricollega tipologicamente, alla memoria storica ed al colloquio con la cultura antica (post-moderna). Non abbandona però l’insegnamento modernista di Carlo Scarpa, Gino Valle e Giuseppe Davanzo, suoi riferimenti fin dall’università. Questi punti di partenza sono introduzioni significative al segno postmoderno. Dobbiamo usare questa definizione come riferimento agli anni ottanta, quando il posmoderno era già fortemente presente come connotato stilistico dell’architettura europea.
Galet si impone, agli inizi della sua progettazione, con realizzazioni ben  definite e personali (casa Piccoli-Malnis, 1981).

Nella casa Galet-Tonon, sono stato sorpreso dalla pienezza dei collegamenti funzionali tra l’arredamento ed i vani che compongono le strutture volumetriche. Sebbene differenti nell’approccio, lo studio più pacato, e la parte abitativa dedicata alla famiglia ed agli amici, risolta con più calore ed intimità. Da una parte elabora un interno a due livelli caratterizzato da aperture in levigata continuità ed un linguaggio visuale chiaramente definito, dall’altra nell’ampio soggiorno, fulcro della casa, si abbandona istintivamente alla ricchezza ed eloquenza dei vari dettagli, ed alsensibile trattamento dei materiali. In aggiunta collega, con una lineare articolazione di grafismi architetturali, entrambe le parti, anche se funzionalmente divise. Collegamenti e connessioni chiaramente visibili anche in altre sue costruzioni con un linguaggio ben riconoscibile, che si libera dalla forma, in quanto la concepisce come elemento simbolico costruttivo del contenuto e della comunicabilità dell’architettura. Perciò la interpreta come segno, il che è perfettamente comprensibile, ma lascia anche spazio all’aspetto intimo e lirico. Questa sua poetica si collega, ma in modo critico, al postmodernismo.

Già nelle piante dei progetti all’inizio degli anni ottanta è chiaramente visibile la tendenza di Galet alla strutturazione cristallina degli interni, organizzati principalmente attorno ad un asse imaginario che è generalmente in fattivo rapporto con lo spazio esterno collegato alla casa. Questo trattamento integrato si evidenzia in un piano univoco, dove gli accentuati elementi architettonici dell’edificio si estendono organicamente sino al perimetro del terreno.
Nelle realizzazioni così concepite i muri piani e le pareti regolari sembra derivino dal neoplasticismo. Percepiamo, sia l’interno che l’esterno come struttura formale eloquente. Mi sembra che questa espressività sia personale più che una maniera formalista. E’ in effetti quella criticità progettuale, prima riferita, sempre presente come costante del suo lavoro.

Fra i progetti di Galet, mi richiama l’attenzione, quello per il concorso per la realizzazione di un ponte, (ponte in via Balliana, 1985) simmetricamente perfetto, nel quale avvertiamo la volontà di voler eludere le convenzioni, senza mai sottrarsi ai confronti con la tradizione delle architetture attuali. Delle opere realizzate invece, l’edifcio, costruito nello stesso periodo, dell’autosalone Ferrari sulla Pontebbana (1985),  è sicuramente una delle sue creazioni chiave.
Accentuatamente allungato a fianco di una piazzetta con la fontana, parallelo ad una arteria di traffico intenso, l’edificio, con accentuata allocuzione segnica, medella una cornice fortemente aggettante. Questa è realizzata con un’audace costruzione di cemento armato sul salone espositivo completamente vetrato. Questo edificio parafrasa l’architettura del Municipio di Fontanafredda di Gino Valle (1973-81). E’ interessante che questa coesione segnica viene recepita nell’opera del coetaneo di Galet in Slovenia, sicuramente il principale rappresentante del postmodernismo, l’architetto Vojteh Ravnikar, e precisamente nella scelta concettuale del Municipio di Sezana (1977-79, assieme al gruppo Kras), cittadina sulla frontiera con l’Italia, dove questo collegamento, chiarito dall’autore, richiama la tradizione e l’interesse per l’architettura razionale italiana.
Ma, invece del monumentalismo, comprensibile per un edificio di tipo rappresentativo, come gli edifici di Valle e Ravnikar, Galet perspicacemente segna la presenza della costruzione con la funzione di salone automobilistico, cioè con l’eloquenza scenica delle automobili esposte dietro ad una membrana di vetro, simile ad un enorme “display”.
Accentua così il suo ruolo semanticamente ed indubbiamente comunicativo nello spazio dinamico della strada. Questa trasposizione attuale è, nel senso progettuale,  certamente originale sebbene si riferisca in modo pittoresco, al lessico architettonico del modernismo internazionale. E’ pure evidente la completezza spaziale e formale delle varie parti dell’edificio. Queste parti, funzionalmente differenti, si legano con i loro volumi all’esistente officina meccanica, debitamente rielaborata.

Visionando assieme all’autore le sue opere ho riconosciuto il fatto che l’architetto Galet è un artista degno di essere ascoltato, quando racconta animatamente il proprio operato, sviluppa analiticamente le proprie idee seziona criticamente i propri progetti, tentando tenacemente di chiarire soprattutto quegli spunti progettuali, che sono fondamentali per la comprensione e la giusta valorizzazione dei suoi risultati.
Perciò non possiamo non vedere tutte quelle svariate forme di una libera immaginazione architettonica, che emana sia pacatezza che riservatezza. Queste sono principalmente riscontrabili nel padiglione d’ingresso allo stadio di calcio dell’Associazione Sportiva Liventina al centro del tessuto cittadino di Sacile (1986), oppure la costruzione audace e fortemente armonica soluzione del ponte, che si inarca attraverso il Tagliamento (Bevazzana 1986), o al corpo degli uffici e stabilimento MIM (Sacile 1987), dove i criteri costruttivi si sono totalmente integrati con le forme delle scansioni ritmico-plastiche. La dimostrazione più convincente di come Galet intende il concepimento di ogni compito architettonico nella sua cornice programmatica e contestuale, sono i progetti e le realizzazioni delle architetture industriali e degli uffici (Uffici Coverco, Motta di Livenza, 1988, uffici ed officina Zerio, Prata di Pordenone 1989, uffici e showroom Osap, Sacile 1992, uffici Biasotto Brugnera 1994).
All’infuori di queste diramazioni progettuali, Galet dimostra di difendere il principio del superamento delle norme, in ogni caso alla base di ogni definizione (chiusura) tipologica, e la sua graduale elaborazione progettuale, come possibilità di ricerca creativa dell’ultimo decennio. Ciò viene ottenuto con un vocabolario archietttonico moderno, formalmente allargato, e con una grammatica, che è stata inglobata nella recente metodologia progettuale dal postmodernismo.
In questo procedimento progettuale sono importanti due posizioni basilari che Galet inserisce fermamente nelle fondamenta della propria metodologia: l’individualismo del committente, più giustamente riferito al modo di vita della famiglia nell’ambito dell’abitazione, e dell’individualismo dell’architetto, e ciè della sua personale creatività, cioè il diritto alle scelte individuali nell’ambito di una ricca espressione concettuale e progettuale, che il posmodernismo attingeva dalle tradizioni della propria disciplina.
Con questa definizione ci avviciniamo all’opera completa di Galet, sebbene un’esame profondo dell’operato decennale nel campo delle abitazioni individualici convinca, che sono soprattutto i progetti delle abitazioni i temi preferenziali nelle sue opere. La fertile immaginazione e le idee ben definite vengno materializzate in due progetti per il concorso “La casa più bella del mondo” (1988 e 1991) alla periferia di Reggio Emilia. Sono soltanto degli schermi derivati da forme geometriche di base. Il primo da un semicerchio con la pianta del piano terreno appoggiata ad un muro rettilineo, la seconda da un cerchio con un’atrio vetrato e con i vani opportunamente dislocati su due piani.
I due progetti che seguono un programma di base, indicano l’insistere di Galet sula sperimentazione funzionale e semantica delle forme spaziali primarie e delle leggi della composizione. Con un po’ di più audacia potremmo definire proprio questi due inaspettati progetti dell’opera di Galet come un’eco alquanto filtrata della filosofia decostruttivista dell’architettura, che si è già ben affermata nella progettazione dell’architettura posmoderna. La prudenza nella definizione precedente è pienamente comprensibile in quanto Galet non ha mai rinnegato la comunicabilità della matrice razionale categoricamente applicata nella maggior parte dei suoi progetti. In altre parole significa che si tratta in questo caso di un’escursione concettuale e morfologica ai limiti di una scuola di pensiero di una pratica creativa e non tanto di accettazione se non forse addirittura l’inchinarsi agli assiomi decostruttivistici.

Quando Galet afferma, durante una conversazione riguardante la casa Nutini-Bucelli (Sacile 1990), nella quale rileviamo, al margine della pianura friulana, l’armonia toscana delle forme legate all’ambiente. La sua avvolgente intimità emanatrice di calore, sebbene eseguita con sofisticata eleganza, concettualmente coerente, si adatta perfettamente ai suoi abitanti. “Si deve coinvolgere il committente, convincerlo a crederti, in quanto ci si può imbattere in ogni sorta di situazioni e casistiche” e aggiunge: “Chiarito questo, non accetto compromessi, sebbene sia forte la tentazione di impormeli”, ci deve essere immediatamente chiaro che lui è un maestro del dialogo e che sa offrire ai desideri e agli stimoli dei suoi clienti una soluzione consapevolmente fondata.

Questo inserto nel discorso della sua architettura mi sembra d’obbligo in quanto possiamo così spiegarci lo sforzo creativo, investito con incredibile tenacità, nello sviluppo dell’abitazione individuale. Questo compito progettuale, mai concluso definitivamente, è divenuto attualmente la sua maggiore preoccupazione. Si ha la sensazione di variabili tipologiche di unità abitative complesse in quanto ha intrapreso un costante inseguimento del paradigma di base, presentandosi così come un ricercatore vitale e formatore del linguaggio architettonico attuale. Dobbiamo cioè  renderci conto che tutto questo succedeva ed attualmente avviene in quel trambusto pluralista, nel quale tutto è possibile ed anche accettabile. Ma Galet è stato sempre criticoverso queste massime postmodernistiche. Se tentiamo di valorizzare cognitivamente le sue creazioni recenti, non è difficile stabilire che ha, partendo da questi presupposti, accettato di riscoprire e valorizzare nuovamente la tradizione culturale modernistica. E’ più che evidente che desidera connettere organicamente la tradizione con la ricerca tipologica dell’abitazione individuale.
Comunque potremmo dire che si tratta di stabilire quel rapporto autentico e impegnato fra il fruitore e l’abitazione che può solamente basarsi sulla percezione attiva e sull’immedesimazione, il che è sempre stata per l’architetto, realizzatore di questo rapporto, il principale criterio creativo.
La prassi creativa odierna ha consapevolmente trasformato ciò in codici comuni di comunicazione, ben presenti nei valori dell’attuale comunicazione architettonica. Con uguale inventiva e penetrante creatività la usa anche nel design industriale e nelle comunicazioni visuali, sempre congiunte ai principi dell’immagine globale, il che nell’ambito abitativo significa l’iterazione visualmente significativa di tutti gli elementi costruttivi, cioè dell’urbanismo, intendendo con ciò la chiara definizione dello spazio dell’inserimento degli edifici nel tessuto urbano o nell’ambiente dell’architettura e del design.



Dr. STANE BERNIK
Ordinario di storia del Disegno Industriale
presso il Dipartimento di Design
All’Accademia di Belle Arti di Lubiana

 
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